17.10.2014 – Greenpeace, Legambiente e WWF a Siracusa per dire no alle trivellazioni nel Canale di Sicilia e chiedere l’abrogazione dell’articolo 38 del decreto Sblocca-Italia
- data Ottobre 17, 2014
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L’Italia non è una colonia dei signori del petrolio. A ribadirlo sono Greenpeace, Legambiente e WWF oggi a Siracusa, seconda tappa del programma di iniziative ambientaliste organizzate nei “punti caldi” della Penisola, per dire no al rilancio delle trivellazioni a terra e a mare. A bordo della nave di Greenpeace Rainbow Warrior, ormeggiata nel porto di Siracusa, le tre associazioni ambientaliste hanno criticato i contenuti dell’art. 38 del decreto “Sblocca Italia” con il quale, grazie ad una serie di forzature normative e costituzionali, si rilanciano indiscriminatamente su tutto il territorio nazionale, sia a terra che in mare, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi in Basilicata e nei mari Adriatico, Ionio, Alto Tirreno e nel Canale di Sicilia.
In particolare in Sicilia è in corso un vero e proprio assalto al mare da parte delle compagnie petrolifere: sono 12.908 i chilometri quadrati interessati dai cinque permessi di ricerca già rilasciati e da altre 15 richieste di concessione, ricerca e prospezione avanzate. Questo, nonostante, già oggi nel Canale di Sicilia vengano estratte (dato a fine 2013) 301.471 tonnellate, il 41% del totale nazionale del petrolio estratto in mare. Dal mare alla terra il passo il breve. Anche sul territorio siciliano sono forti gli interessi delle compagnie petrolifere. Già oggi l’attività è particolarmente intensa, con 5 impianti (Gela, Giurone, Irminio, Ragusa e S. Anna) da cui vengono estratte (dato al 2013) 714.223 tonnellate di petrolio (il 15% della produzione nazionale su terraferma). A queste si devono poi aggiungere i 5 permessi di ricerca, per poco più di 3700 kmq di superficie, e le 11 istanze per 164 mila kmq circa oltre le tre richieste per aprire nuovi impianti estrattivi. Senza contare che gran parte delle richieste in fase di valutazione provengono da compagnie straniere, la cui attività non porterà benefici all’economia nazionale. Una corsa all’oro nero che rischia tra l’altro di compromettere per sempre il futuro delle popolazioni coinvolte da possibili incidenti che metterebbero in pericolo ambiente, turismo e pesca. Per questo Greenpeace, Legambiente e WWF da Siracusa chiedono ai membri della Commissione Ambiente della Camera dei deputati di decidere per l’abrogazione dell’art. 38 del decreto legge Sblocca Italia e lanciano un appello al Governo e Parlamento affinché si abbandoni definitivamente la strada delle fonti fossili e si segua, invece una nuova politica energetica che punti all’efficienza ed alle rinnovabili.
“Il Governo Renzi, con le disposizioni contenute nell’art. 38 del decreto legge Sblocca Italia, – spiegano le associazioni – favorisce la nuova colonizzazione del nostro territorio e dei nostri mari da parte dell’industria petrolifera, invece di difendere l’interesse pubblico ad uno sviluppo economico sostenibile. In particolare l’articolo 38 è nel solco di una strategia del Ministero dello Sviluppo Economico che tende a favorire gli interessi dei petrolieri sin dal 2010, quando ci fu la modifica del Codice dell’Ambiente (con l’art. 2 del decreto legislativo 128/2010) sulla interdizione alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi in una fascia di 12 miglia dal perimetro esterno delle aree naturali protette marine e costiere, e cerca di scardinare qualsiasi norma prudenziale, prima con l’apertura delle attività nel Golfo di Taranto, già nel 2011, poi con la sanatoria delle “procedure in corso” al giugno 2010 seppur localizzate nelle aree interdette (contenuta nell’art. 35 del “decreto sviluppo” n. 83 del 2012) e ancora con l’individuazione di una nuova area di sfruttamento, grande quanto la Corsica, tra la Sardegna e le Baleari (con il Decreto Ministeriale del 9/8/2013).
Le associazioni ritengono, tra l’altro, che le disposizioni contenute nell’art. 38 del dl 133/2014: 1) consentano di applicare le procedure semplificate e accelerate sulle infrastrutture strategiche ad una intera categoria di interventi senza individuare alcuna priorità; 2) trasferiscano d’autorità le VIA sulle attività a terra dalle Regioni al Ministero dell’Ambiente; 3) compiano una forzatura rispetto alle competenze concorrenti tra Stato e Regioni cui al vigente Titolo V della Costituzione; 4) prevedano una concessione unica per ricerca e coltivazione in contrasto con la distinzione tra le autorizzazioni per prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi del diritto comunitario; 5) applichino impropriamente e erroneamente la Valutazione Ambientale Strategica e la Valutazione di Impatto Ambientale; 6) trasformino forzosamente gli studi del Ministero dell’Ambiente sul rischio subsidenza in Alto Adriatico legato alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in “progetti sperimentali di coltivazione”; 7) costituiscano una distorsione rispetto alla tutela estesa dell’ambiente e della biodiversità rispetto a quanto disposto dalla Direttiva Offshore 2013/30/UE e dalla nuova Direttiva 2014/52/UE sulla Valutazione di Impatto Ambientale.
In Sicilia tra le ultime richieste presentate due sono quelle relative alle attività di prospezione. Entrambe sono state presentate nell’aprile scorso dalla Schlumberger Italia per un’area di 6.380 kmq. Una riguarda il mare nella zona a largo di Agrigento e di fronte la costa orientale di Pantelleria; mentre la seconda si pone l’obiettivo di indagare l’area che di recente il Governo ha messo a disposizione delle compagnie petrolifere. Si tratta infatti dell’ampliamento decretato nel dicembre 2012 (DM 27 dicembre 2012), della Zona C nello Ionio meridionale compresa tra Capo Passero e Malta. Altro che nuovi limiti e divieti per le attività estrattive, come spesso sono state presentate le ultime disposizioni normative, anche da questi elementi si evince come l’interesse delle compagnie petrolifere sia sempre più forte nei confronti del mare italiano e come lo stesso Governo nazionale negli ultimi tempi abbia varato diverse norme che favoriscono le società proponenti e ampliano le aree di attività a disposizione per la loro attività. Le piattaforme attive sono Gela 1, Gela Cluster, Perla e Prezioso, di proprietà della società Eni Mediterranea Idrocarburi, e Vega A, di proprietà di Edison. A queste rischiano di aggiungersene 4, oggi in fase di valutazione di impatto ambientale. Due nel tratto di mare antistante Licata e Palma di Montechiaro e una di fronte la costa meridionale di Pantelleria, dove è già stato rilasciato anche un permesso di ricerca per 657 kmq di area marina. Oltre a queste c’è poi il progetto di ampliamento dell’attività estrattiva accanto alla piattaforma Vega A di Edison, a largo di Pozzallo, con un secondo impianto denominato Vega B.
Dalla Sicilia, l’isola che ospita 3 tra le più grandi raffinerie di petrolio del Paese e ne patisce le pesanti conseguenze ambientali e sanitarie, le associazioni ambientaliste lanciano l’appello a fermare la deriva petrolifera, nell’interesse generale del Paese e di gran parte dei settori economici più avveduti, per avviare anche in Italia una rivoluzione energetica, garantendo uno sviluppo sostenibile e duraturo sul piano economico e occupazionale. A dimostrazione dell’assurdità della scelta di puntare ancora sul petrolio, basti ricordare che le quantità di greggio stimate sotto il mare italiano sono di poco meno di 10 milioni di tonnellate e, visto che il nostro consumo annuo è pari a 61 milioni, si esaurirebbero in soli due mesi. Considerando anche quelle sotto il suolo italiano si arriverebbe a 82 milioni di tonnellate di riserve certe, anche in questo caso però durerebbero per poco meno di 17 mesi.
Dopo Siracusa, le altre iniziative ambientaliste organizzate da Greenpeace, Legambiente e WWF per dire no al rilancio delle trivellazioni a terra e a mare saranno: il 27 ottobre a Pescara (in Abruzzo), a Bari (in Puglia) e a Potenza (in Basilicata).
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