15.03.2014 – A proposito di dissesto idrogeologico. Riflessioni di Legambiente Sicilia e Consiglio nazionale dei Geologi
- data Marzo 17, 2014
- autore ufficiostampa
- In COMUNICATI STAMPA
- 0
Dal secondo dopoguerra in Italia si è costruito senza tenere nel minimo conto tanto le modifiche che si apportavano alla natura del territorio quanto le conseguenti condizioni di pericolo alle quali ci si esponeva. Alcuni grandi dissesti resero periodicamente evidente che si stava percorrendo una strada molto pericolosa ma nulla è cambiato. Anzi. Oggi viviamo in un Paese dove molti milioni di nostri concittadini sono soggetti a gravi condizioni di rischio senza nemmeno averne consapevolezza. Per capire quanto grave sia la situazione, basti pensare che il 10% della popolazione (circa 6 milioni di italiani) vive in aree considerate a rischio molto elevato dai Piani per l’Assetto Idrogeologico. Ma questi strumenti, pur importanti, non sono però stati redatti considerando la “propensione al dissesto” del territorio ma solo le frane e le alluvioni di cui si aveva notizia. Per essere ancora più chiari, c’è tutto un altro pezzo della popolazione che vive in aree a rischio non ancora individuate come tali.
Si tratta di condizioni comparabili a quelle che normalmente contraddistinguono le aree più povere del pianeta e non i paesi più sviluppati, ma la nostra “furia edificatrice” ci ha fatto perdere anche la ragionevolezza.
L’Italia è per sua natura molto fragile, ma per molti secoli gli uomini sono riusciti comunque a insediarsi in gran parte del suo territorio senza creare squilibri eccessivi. Ciò è potuto avvenire grazie al rispetto delle dinamiche naturali. Negli ultimi decenni, pensando di avere capacità tecniche tali da potere dominare la natura del suolo, abbiamo costruito in modo dissennato e oggi ne paghiamo il salatissimo prezzo.
Proprio per l’evidenza di queste ragioni non si può affermare che l’enorme problema che ci troviamo ad affrontare sia causato dai cambiamenti climatici. Pur essendo questo fenomeno indiscutibile, le piogge molto intense che caratterizzano ormai il nostro clima possono essere considerate gli inneschi dei fenomeni di dissesto e non certo l’origine.
L’ultimo crollo avvenuto ad Agrigento è un caso esemplare dell’inadeguatezza degli strumenti fino a oggi utilizzati per pianificare e per ridurre le condizioni di rischio. Appena qualche anno dopo la frana del 1966, che aveva palesato la fragilità delle pendici del colle su cui si trovava la città, fu consentito il taglio di un versante molto scosceso per realizzare al piede alcuni palazzi. In cima allo stesso versante erano già stati realizzati una strada e altri edifici. Insomma ne fu completamente modificato l’equilibrio, dalla cima al piede, sia dal punto di vista geologico che idraulico. Non fu inoltre realizzata alcuna opera di convogliamento o drenaggio delle acque meteoriche né alcuna verifica della stabilità del versante.
Il PAI redatto alla metà degli anni 2000 ha individuato correttamente il pericolo evidente di scivolamenti degli strati argillosi superficiali ma non quello di cedimenti della roccia sottostante, perché il banco calcarenitico non presentava fessurazioni visibili.
Quanto successo ad Agrigento in questi giorni, così come i tanti dissesti che colpiscono più volte l’anno gran parte del nostro territorio, ci dice che abbiamo bisogno di strumenti molto più efficaci associati a grandi risorse economiche ma, soprattutto, di un’altra cultura del costruire. Non solo per evitare ciò si è fatto fino ad oggi ma anche per intervenire in modo molto più efficace nella riduzione delle condizioni di rischio. Negli ultimi quarant’anni in Italia sono stati spesi circa 52 miliardi, eppure il nostro Paese è decisamente meno sicuro di prima. Ciò dimostra banalmente che queste risorse sono state spese male perché si limitavano a intervenire sulla riduzione del pericolo e quindi perseveravano nell’illusione di poter contenere i fenomeni naturali. In altre parole abbiamo costruito muri di contenimento per consentire la costruzione di case sotto le frane e abbiamo alzato gli argini per continuare a costruire le case nelle aree di esondazione di fiumi e torrenti. La riduzione del rischio passa invece prevalentemente per l’allontanamento dei nostri interessi da quello che definiamo “pericolo”, che è parte integrante delle dinamiche naturali di trasformazione del suolo terrestre.
Se vogliamo davvero adeguarci ai cambiamenti climatici dobbiamo fare come gli olandesi che hanno predisposto una strategia nazionale dal significativo titolo “Spazio al fiume”. Partendo dalla constatazione che il riscaldamento del clima non consentirà a breve di fare previsioni attendibili sui livelli che potranno raggiungere i corsi d’acqua in piena, e quindi del livello che dovranno raggiungere gli argini, hanno deciso che sono le case e le strade che si dovranno allontanare a distanza di sicurezza.
Mimmo Fontana, presidente di Legambiente Sicilia
Gian Vito Graziano, presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi
Commenti recenti